LIVE NIRVANA INTERVIEW ARCHIVE September ??, 1989 - Olympia, WA, US

Interviewer(s)
Guido Chiesa
Interviewee(s)
Kurt Cobain
Publisher Title Transcript
Rockerilla TBC Yes (Italiano)

Circa sette anni fa—proprio sulle colonne di Rockerilla—prese il via tra il pubblico e la stampa del nostro paese una minore, ma significativa, disputa su un genere musicale destinato a breve vita: la neopsichedelia o neo-garage rock.

In retrospettiva, non solo il fenomeno fu assai più circoscritto di quanto immaginavano sia i partigiani che i nemici della causa neo-psichedelica, ma la diatriba dimostrò i limiti di un fenomeno musicale assai più vasto (il rock) giunto a una fase estremamente critica della propria esistenza: quella in cui il massimo della novità coincide con il minimo dell'originalità.

Con il senno del poi, è ovvio che la discussione non fu altro che l'effetto di quella provincialità che affligge da sempre il gusto rock dei paesi non anglosassoni. Basti pensare che la maggior parte dei gruppi neo-psichedelici finì col trasferirsi professionalmente in Europa, tanto poco era il seguito presso il pubblico americano.

Sempre con il senno del poi, mi sembra però che il problema che quella discussione celava fosse un altro, ben più interessante e decisivo, solo che nessuno ebbe il coraggio di affrontarlo: il rock ha un futuro? In altre parole, che avvenire può avere una musica che, meno di 25 anni dopo la sua ufficiosa nascita, si vede già costretta a riciclare se stessa?

Sette anni dopo, visto il misero stato del rock ufficiale e le instabili fortune di quello indipendente, la domanda è emersa più chiara che mai dalle nebbie delle mode, delle passioni personali, delle scoperte dell'ultimo minuto. In questo contesto, con un tale dibattito in corso, è emersa sulla scena del rock indipendente la Sub Pop, una piccola etichetta di Seattle, nello stato di Washington, che nel giro di un anno e mezzo, grazie a Mudhoney, Soundgarden, Swallow ecc, si è conquistata un posto in primo piano nel panorama underground americano. Com'era già successo per la neopsichedelia e innumerevoli altri fenomeni, il pubblico e la critica si sono spaccati in due. Dall'altro, c'è chi esalta l'hard rock/psichedelico di queste band come l'antidoto al declino del rock e alla sua omogenizzazione da parte della varie Madonna e Tracy Chapman. Dall'altro, c'è chi ritiene queste bands nient'altro che la miscelazione in brutta copia di idee altrui, ennesimo sintomo dell'irreversibile decandenza del rock. Chi ha ragione? Non sta a me a dirlo, io mi sono limitato a intervistare Kurt Cobain.

GC: Come sono nati i Nirvana?

KC: Era da circa quattro anni che Chris, il bassista, e io cercavamo di formare i Nirvana in un piccolo paese a circa centotrenta chilometri da Seattle. Non è stato semplice perché ad Aberdeen è difficile trovare dei musicisti dedicati. La popolazione è composta perlopiù da lavoratori e la mentalità è piuttosto chiusa e idiota. Così, circa un anno e mezzo fa, ci siamo trasferiti a Tacoma. Qui, con l'aiuto di Dale Crover dei Melvins, abbiamo registrato un demotape che ha attirato l'attenzione di Jonathan Poneman della Sub Pop. Sempre a Tacoma abbiamo incontrato Chad, il batterista, e con lui abbiamo dato vita ai Nirvana. Poco dopo, io mi sono trasferito a vivere a Olympia mentre gli altri due sono rimasti a Tacoma.

GC: E che cosa è successo a Jason?

KC: Jason è stato il nostro chitarrista per circa sei mesi, ma recentemente lo abbiamo sbattuto fuori. In fin dei conti, abbiamo cominciato in tre, e per circa sei mesi siamo rimasti un terzetto. Credo che la formula a tre sia la più ideale per il nostro tipo di musica.

GC: Mi pare che negli ultimi due anni lo stato di Washington abbia prodotto più band di tutti gli altri stati messi assieme. Tacoma ci ha dato Girl Trouble, Ellensberg gli Screaming Trees, Olympia i Beat Happening e i Melvins, per non parlare di Seattle. Siete in contatto con queste band?

KC: Sì, siamo amici con tutti.

GC: C'è un senso di comunità tra tutte queste formazioni?

KC: Nel modo più assoluto. Tutti si conoscono bene e sovente collaborano tra di loro. Ad esempio, io suono occasionalmente nei Go Team, una specie di supergruppo che Calvin dei Beat Happening mette insieme di tanto in tanto. Recentemente, Chris, io e i due Mark degli Screaming Trees abbiamo registrato un singolo per la Sub Pop, costituito dalle cover di due pezzi di Leadbelly. Farà parte della collana "Singles Club" della Sub Pop.

GC: Siete finiti a registrare per la Sub Pop perché è l'unica etichetta della zona o quella a cui vi sentite più vicini?

KC: Quando abbiamo incominciato a suonare, circa tre anni fa, non sapevamo nemmeno che esistessero etichette interessate al nostro tipo di musica. Quando poi sono venuti fuori i primi dischi della Sub Pop, siamo stati colti di sorpresa e ci siamo detti: "Questa è la migliore etichetta per cui possiamo registrare".

GC: Vi sentite vicini agli altri gruppi della Sub Pop?

KC: Sì, nel senso che tutti più o meno suoniamo musica dura a tempi moderati. Tutti i gruppi della Sub Pop hanno il loro suono ben distinto e a me non piace essere ammucchiato con tutti gli altri, come se non ci fossero differenze. Non credo che tutte le band Sub Pop siano simili.

GC: E' vero però, come tu stesso hai detto, che quasi tutti i gruppi della Sub Pop (forse con la sola eccezione degli splendidi e sottovalutati Walkabouts) suonano hard rock rallentato. Un altro elemento comune a queste band—e forse, in generale a tutto l'odierno post-punk americano—è la miscelazione di tre generi in un unico sound: hard rock, psichedelia, punk. Che ne pensi?

KC: Sono perfettamente d'accordo. E' veramente difficile, nei tardi anni '80, venir fuori con delle idee completamente originali, per cui l'unica soluzione alternativa è quella di affidarsi alle proprie influenze ed arrangiarsi con esse.

GC: Grazie a dio, nel caso dei gruppi della Sub Pop e più in generale dell'area dello stato di Washington, le influenze adottate sono delle più oneste e gradevoli. E' quasi come se fosse arrivata la fine della vita del rock…

KC: …Esattamente gli ultimi esemplari…

GC: E aveste deciso di prendere quel che di buono il rock ha prodotto, metterlo insieme e cercare, ancora una volta, di creare quella illusione…

KC: Proprio quello che sto cercando di spiegare. Forse il rock è arrivato alla fine del proprio corso. In fin dei conti, c'è un limite al numero di note di una chitarra. Il rock è in circolazione da trent'anni e quando suoni con un tempo a 4/4 non puoi che, prima o poi, esaurire le tue idee o perlomeno perdere di originalità. Il problema del rock contemporaneo è proprio la mancanza di originalità, è da almeno tre o quattro anni che non arriva sulle scene un gruppo veramente diverso.

GC: Quindi nemmeno voi?

KC: Nemmeno noi. Forse noi rappresentiamo il massimo dell'originalità che si può ottenere alla fine degli anni ottanta.

GC: Con parole tue, come definiresti l'originalità dei Nirvana?

KC: Non posso, è dentro di noi, siamo noi. Le influenze sono lì, chiare come il sole. L'originalità siamo noi, e non possiamo spiegarla, perché viene dal di dentro.

GC: Chiare come il sole, ma non abbastanza da evitare la solita domanda: parlaci delle vostre influenze?

KC: I Beatles, primi fra tutti. Per i primi undici anni della mia vita non ho fatto altro che ascoltare i Beatles. La loro influenza, sul modo in cui scrivo gli accordi dei miei pezzi, è innegabile. Quindi, ho incominciato a ascoltare i Led Zeppelin e gli Aerosmith, fino al momento in cui il punk ha cambiato la mia vita. Quando poi anche quella fase è finita, ho iniziato a mettere insieme il tutto in qualcosa che potessi riconoscere come mio.

GC: Da un altro punto di vista, però, è anche vero che voi non fate altro che continuare la lunga ondata punk. O meglio, a vivere sull'onda di ciò che il punk ha messo in movimento.

KC: Sì, anche se non credo di essere in grado di spiegarti come. Il punk ci ha liberati. Io ho scoperto il punk quando avevo undici anni e ho subito voluto farne parte. Leggevo la rivista Creem e l'aspetto sado-masochistico e ribelle di quella musica esercitò un immediato fascino su di me. Volevo farne parte a tutti i costi e facevo finta di essere un punk, anche se nella mia cittadina nessuno sapeva che cosa fosse. D'altra parte, ne ero anche spaventato, perché in fin dei conti non ero altro che un burino ignorante come tutti gli altri. Fu solo verso i quindici anni che entrai veramente in contatto con quella musica.

GC: Del resto, ancora oggi, per i ragazzini tredicenni del tuo piccolo paese dello stato di Washington non c'è altra forma di ribellione che quella offerta dal punk—per quanto questa parola abbia cambiato di significato e valenza. Ora, anche i Guns'n'Roses sono finiti sulla copertina di Rolling Stone…

KC: Sì, in questo senso i gruppi della Sub Pop sono una facile introduzione a quella ribellione che il punk ha incarnato. E' musica più pop del punk, ma mantiene lo spirito. Il punk che ascoltavo io da ragazzino, tipo Damaged dei Black Flag, era troppo estremo e alienava le attenzioni della maggiorparte dei miei coetanei. Nessuno lo capiva.

GC: Sì ma il tuo discorso regge se voi avesse vissuto all'epoca di Damaged. Ora purtroppo alle vostre spalle c'è il deserto. Può darsi che siate una buona introduzione a qualcosa di più estremo, ma quel qualcosa se ne è già andato. La musica della Sub Pop è la forma più estrema di post punk che oggi ci sia dato ascoltare.

KC: E' vero. Mi piacerebbe pensare che gruppi come il nostro occupano il posto lasciato vacante da quella porta aperta che è stato il punk. Contemporaneamente, in coscienza, capisco che non siamo altro che l'ombra di qualcosa che è già stato ogni volta che scrivo un riff. Non posso non rendermi conto che si tratta dell'imitazione di un pezzo altrui, che non è originale, che l'ho già sentito. Love Buzz, ad esempio, non è che la riscrittura di un pezzo degli Shocking Blue, gli abbiamo solo cambiato metà delle parole e il giro di basso.

GC: Non voglio essere provocatorio, ma se sei tu il primo ad ammettere che ogni volta che scrivi un pezzo ti rendi conto di stare rubando a qualcuno, perché continui a suonare?

KC: Da un lato, perché non so fare altro e non c'è niente altro che voglia fare. Non ho altri scopi nella mia vita, non ci sono altre attività che mi interessano. Non voglio essere un dottore o un giornalista. E poi, d'altro lato, c'è sempre la possibilità che tra trecento idee insconsciamente rubate a qualche altro musicista, ne nasca una che è tutta mia. E' una grande sfida.

GC: E' questa specie di nichilismo esistenziale che vi permette di scrivere della musica così sinceramente sofferta e sofferente, quasi come se non ci fosse un domani?

KC: Sì, soprattutto quando vivi in America. Ti rammentano costantemente, 24 ore al giorno,in che razza di mondo vivi: una società ridicola, capace solo di produrre frustrazione e gente idiota. Gli Stati Uniti sono costituiti da idioti. I miei giudizi potranno apparire estremi, ma per convincermi della loro veridicità non ho che da accendere la televisione, o camminare per strada e farmi gridare dietro insulti per il colore dei miei capelli.

GC: E' quasi come se ti sentissi parte di una minoranza sull'orlo dell'estinzione…

KC: Sì, e ho abbandonato ogni speranza di cambiare la gente. Quando ero ragazzino, fui coinvolto nell'ala politica del punk. Fu una specie di boccata d'aria fresca: la sensazione che si poteva cambiare l'umanità, che si poteva fare qualcosa di concreto. Ma in pochi anni mi sono reso conto che non solo è impossibile cambiare la maggioranza delle persone, ma che non ho interesse alcuno nel cercare di salvare questa gente, perché non se lo merita.

GC: E' questo l'aspetto sadomasochistico del punk in cui ti dicevi affascinato?

KC: Dev'essere questo, in fin dei conti. E' l'unica forma di sadomasochismo che mi piace.

© Guido Chiesa, 1989